di Roberta Necci e Antonio Tundo
Pur essendo animati da affetto e da desiderio di essere di aiuto non è sempre facile per i familiari e per gli amici comportarsi in modo costruttivo, sapere cosa fare in certe situazioni o come rispondere a determinate richieste. Proponiamo pertanto di seguito alcune semplici regole che, nella nostra esperienza, si sono dimostrate una valida guida per facilitare la gestione dei problemi quotidiani di chi vive accanto a chi soffre di disturbo di panico.
Migliorare la comprensione del disturbo
Abitualmente chi soffre di disturbo di panico è consapevole di non stare bene e di avere bisogno di cure e questo facilita molto il compito di chi gli è vicino. Può tuttavia capitare, soprattutto quando la patologia è insorta da poco, che l’attenzione sia rivolta esclusivamente ai sintomi fisici e che la persona chieda ripetutamente a familiari ed amici di essere aiutato a trovare un “buon clinico” che gli consigli ulteriori e più approfonditi accertamenti, che chiarisca finalmente la diagnosi e che prescriva una terapia medica appropriata.
Se ci si accorge che il proprio caro è entrato in questa “spirale ipocondriaca” e non riesce a valutare in modo adeguato la propria condizione è opportuno documentarsi sul problema, riuscire a parlargliene con serenità e chiarezza spiegandogli che si tratta di un disturbo mentale e non fisico che affligge non solo lui ma molte altre persone e per il quale ci sono cure specifiche molto efficaci.
Aiutare a vincere la diffidenza verso i farmaci
A volte la persona, pur rendendosi conto di averne bisogno, rinvia anche per mesi o anni la visita psichiatrica e l’inizio di una terapia adeguata per le tante e ingiustificate paure verso i farmaci psichiatrici preferendo trattamenti alternativi, come l’agopuntura, l’omeopatia, i fiori di Bach ecc.
In questo caso familiari e amici possono essere di aiuto fornendo informazioni e materiale divulgativo che trattino in modo scientificamente corretto il problema.
Non ridicolizzare le paure o i comportamenti di chi soffre di disturbo di panico
È umanamente comprensibile perdere la pazienza e farsi sfuggire frasi come
- “E’ la centesima volta che dici che ti sta venendo un infarto!”
- “Come puoi credere di svenire se solo entri in un supermercato affollato?”
Oppure tentare di fare leva sull’amor proprio rimproverando la persona di non “sforzarsi” a sufficienza, di non mettere la “buona volontà” per vincere i timori e riacquistare l’autonomia. Questi atteggiamenti, non solo non servono a nulla, ma anzi suscitano risentimento, frustrazione, sensazione di incomprensione, demoralizzazione e, talvolta, reazioni di rabbia e aggressività.
Durante la crisi di panico, infatti, la persona si sente veramente male ed è come se stesse veramente per avere un infarto o per svenire. Al di fuori della crisi, invece, si rende conto già da sé dell’assurdità delle proprie paure ma non è in grado di superarle semplicemente con la forza di volontà.
Ridurre gli stimoli stressanti
Gli episodi di panico possono essere scatenati da eventi stressanti anche di minima entità; un contrattempo, una discussione animata (“Mentre discutevo con mio marito per una sciocchezza ho avuto una tachicardia tanto forte da finire al Pronto Soccorso”), un ritardo (“Mio figlio mi aveva detto che sarebbe ritornato per cena e invece alle 23 non si era ancora fatto sentire, ero preoccupatissima e a un certo punto mi è cominciata a mancare l’aria, mi sentivo svenire”) come pure una brutta notizia (“Quando mi hanno detto che mio zio ha avuto un infarto mi sono sentito male”; “Ho passato due giorni d’inferno dopo avere sentito in televisione che c’è stato un attentato in cui sono morte quattro persone”) o un cambiamento nella routine quotidiana (“Non vivo più da quando so che dobbiamo cambiare casa”).
Almeno finché il disturbo è in fase acuta, è opportuno evitare di coinvolgere la persona in litigi, di programmare cambiamenti importanti nei ritmi di vita quotidiana e di rimarcare eventi catastrofici (terremoti, incidenti aerei); se necessario metterla al corrente di notizie spiacevoli (la malattia di un amico, un furto in casa) è preferibile farlo con cautela e gradualità.
Supportare l’inizio della terapia
Chi soffre di disturbo di panico ha spesso un rapporto “difficile” con i farmaci, soprattutto con quelli che agiscono sul sistema nervoso centrale, ed è necessario aiutarlo ad iniziare e portare avanti la cura.
Nei primi giorni di trattamento, un po’ come reazione psicologica e un po’ per effettiva ipersensibilità alla terapia, si può manifestare un aumento dell’ansia che è comunque transitorio e che non è indice di un effettivo peggioramento del quadro clinico. Inoltre i farmaci, per quanto siano in genere antidepressivi di nuova generazione, non sono esenti da effetti collaterali soggettivamente spiacevoli anche se non oggettivamente pericolosi.
In tutti questi casi se la persona è spaventata o scoraggiata è importante tranquilizzarla consigliandole di non ridurre le dosi o smettere autonomamente la cura se qualcosa non va ma di consultare il proprio medico che sarà sicuramente in grado di valutare la situazione e proporre una soluzione.
Se il vostro caro sceglie di seguire un percorso psicoterapeutico può non sentirsi in grado di andare da solo. Accompagnarlo, almeno per i primi tempi, può essere utile per non interrompere la terapia.
Incoraggiare se i risultati tardano a venire
Per quanto il disturbo di panico risponda bene e abbastanza rapidamente alle cure, è sempre necessaria qualche settimana per il blocco degli episodi acuti e un tempo ancora più lungo, variabile da persona a persona, per il controllo dell’ansia anticipatoria e delle condotte di esitamento.
Se la gradualità della risposta causa uno stato di scoraggiamento e la tentazione di abbandonare le cure è utile sottolineare i miglioramenti già ottenuti come, per esempio, la scomparsa o l’attenuazione degli episodi acuti di panico o il raggiungimento di una maggiore, per quanto parziale, autonomia.
Aiutare a riacquistare l’autonomia
Soprattutto se il disturbo dura da molto tempo e le condotte di evitamento sono estese è possibile che alla scomparsa degli attacchi di panico non corrisponda automaticamente il ritorno ad una vita autonoma. In questo caso è opportuno sollecitare la persona a “mettersi alla prova” affrontando da sola e con gradualità le situazioni temute, per esempio percorrere a piedi prima 500 metri e poi 1 chilometro oppure prendere la metropolitana prima per una fermata e poi per due, ecc.
Nel processo che porta a riacquistare la completa autonomia è fondamentale il contributo del familiare o dell’amico che in precedenza aveva il ruolo di figura “protettiva”. Questi infatti deve avere la sensibilità di capire quando è il momento di cominciare a ritirare il proprio sostegno e quanto rapidamente lo può fare, chiedendo eventualmente consiglio allo psichiatra o allo psicoterapeuta che ha in cura la persona.
Chiedere informazioni al medico o allo psicoterapeuta solo in presenza o con l’autorizzazione della persona interessata
Il segreto professionale e la legge sulla privacy impediscono ai sanitari di dare notizie sulla diagnosi, sulle cure o sull’evoluzione del disturbo all’insaputa dell’interessato. Questa prassi non è solo un vincolo normativo ma è soprattutto un modo per tutelare il rapporto di fiducia tra medico e paziente.
Rivolgersi, per un supporto extrasanitario, alle associazioni di volontariato
Particolarmente attiva nell’ambito dei disturbi d’ansia è l’Associazione IDEA Roma Onlus che fornisce informazioni sulla patologia, sulle terapie e sull’atteggiamento più opportuno da tenere da parte degli altri membri della famiglia e mette a disposizione gratuitamente un servizio di ascolto telefonico e gruppi di Auto-Aiuto.