“Dottore per quanto tempo dovrò prendere questi farmaci?”
Con qualche decennio di attività clinica sulle spalle, so ormai bene che a conclusione della prima visita, dopo aver spiegato la diagnosi e la terapia, arriverà dal paziente o dai suoi familiari la fatidica domanda: “Ma per quanto tempo dovrò prendere questi farmaci?”.
Spesso la stessa domanda mi continuerà a essere rivolta anche durante le visite successive.
Oltre alla voglia di saperne di più, atteggiamento costruttivo indispensabile per facilitare il processo di cura, c’è in genere anche il desiderio di placare le paure che ancora oggi ruotano intorno alla diagnosi psichiatrica (“follia”, “cronicità”, “vergogna”), alla necessità di seguire una terapia farmacologica (“sedazione”, “cambiamento di carattere”, “danni fisici”, “dipendenza”) e al conseguente desiderio di smettere le terapie prima possibile per sentirsi “definitivamente guariti”.
Un atteggiamento comprensibile sul piano emotivo ma irrazionale perché, in psichiatria come nel resto della medicina, non è l’assunzione di un farmaco a “certificare” la presenza di un disturbo ma viceversa, cioè è la presenza di un disturbo che rende necessario seguire un trattamento.
Per quanto ogni caso sia a sé e una risposta precisa possa essere data solo osservando l’evoluzione del quadro clinico nel tempo, cerco sempre già dalla prima visita di fare una previsione per grandi linee su quale sarà il percorso terapeutico basandomi sulle conoscenze scientifiche e sull’esperienza personale.
Una volta date le informazioni osservo che la maggior parte delle persone si sente più tranquilla all’idea che nel momento in cui prescrivo una cura ho già in mente un preciso progetto terapeutico con la previsione, se ci saranno le condizioni, di sospendere o quanto meno ridurre la quantità di farmaco assunto. La maggior parte ma non tutti, qualcuno deluso o preoccupato osserva “Ma allora, se devo prendere un farmaco per tanto tempo, e forse a vita, significa che non è curativo ma è un semplice palliativo”.
L’idea che una terapia per essere considerata “curativa” debba risolvere definitivamente un disturbo deriva da quello che accade nelle malattie infettive dove un agente esterno, per esempio un batterio, causa un’alterazione nell’organismo, per esempio un mal di gola, per cui si assume un antibiotico che dopo aver eliminato il batterio può essere sospeso.
Ma le malattie infettive sono una piccola area della medicina, nella maggior parte degli altri casi modalità e tempi di cura seguono regole ben diverse. Per rimanere alle patologie più comuni, come per esempio l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, il reflusso gastro-esofageo, il diabete, l’ipotiroidismo (e l’elenco sarebbe lunghissimo), è necessario proseguire a lungo le terapie anche quando la persona sta bene per evitare la ricomparsa dei sintomi. Esattamente come accade per i disturbi psichiatrici più importanti, come la depressione con frequenti ricadute o i disturbi bipolari. Questo significa che i farmaci utilizzati in psichiatria sono “curativi” tanto quanto quelli di più largo impiego nel resto della medicina come gli anti-ipertensivi, le statine, gli ormoni tiroidei ecc… In altre parole, gli strumenti terapeutici oggi a disposizione dello psichiatra hanno una capacità terapeutica simile a quella degli strumenti che hanno a disposizione gli altri medici, sono cioè in grado di risolvere un disturbo e di evitare che si ripresenti ma non sempre di “eliminarlo definitivamente” tanto da poter fare a meno delle cure.
In genere concludo le mie riflessioni su questo argomento con il paziente e i suoi familiari ricordando che il nostro obiettivo comune è recuperare il benessere e mantenerlo nel tempo. Se questo, per i limiti delle terapie oggi disponibili, significa dover prendere a lungo una pillola, per quanto sia una seccatura è pur sempre meglio che avere ulteriori ricadute con tutta la sofferenza e le pesanti conseguenze sulla vita familiare, sociale, lavorativa che queste comportano.
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