“La sofferenza mentale è sofferenza.”
Di nuovo una lettera tratta dalla rubrica “Invece Concita. Il luogo delle vostre storie” del quotidiano Repubblica cattura la nostra attenzione. Tempo fa avevamo commentato una lettera su ansia e stigma (Anche nell’ansia lo stigma è un tema presente ) stavolta, attraverso le parole di una giovane di ventisette anni, accogliamo l’invito alla gentilezza. Un sentimento che, insieme alla comprensione, può essere la chiave per rompere il muro dei pregiudizi che da sempre circonda chi soffre di disturbi mentali.
“Se conoscete qualcuno che lotta contro la tristezza, la paura e l’ansia, ve ne prego, dunque: siate gentili.”
Con questo appello Rebecca, la giovane autrice della lettera, ci suggerisce un modo possibile per rapportarci alle persone che soffrono di ansia, di attacchi di panico, di depressione , di ossessioni o di altri disturbi. Un appello che richiama alla sensibilità, all’empatia, alla comprensione ma che ci offre la possibilità di fare un passo in più.
Non sempre, infatti, possiamo sapere se una persona scontrosa, cupa, nervosa, che ad ognuno di noi può capitare di incontrare, sia semplicemente maleducata, scostante o se invece si tratti di un “pessismista coraggioso che combatte ogni giorno contro le proprie ombre” e cerca di fare del suo meglio. Possiamo lasciare spazio alla possibilità che quella persona stia attraversando un momento difficile, anche se non abbiamo modo di appurarlo, e mettere in pratica l’appello di Rebecca semplicemente sottraendoci alla tendenza a giudicare.
“La sofferenza mentale è sofferenza” scrive Rebecca. Il problema, ciò che aumenta lo stigma, è l’invisibilità della mente che soffre. Qualsiasi altra parte del corpo venga colpita dalla sofferenza offre spesso la visione concreta di ciò che accade e, di conseguenza, è più semplice capire, immedesimarsi, sostenere. La mente, invece, richiede fiducia. Una mente che soffre soffre due volte, per il dolore che l’affligge e per l’essere spesso non creduta, fraintesa, mal giudicata. Accogliamo quindi l’appello di Rebecca e proviamo a sospendere il giudizio. È un atto dovuto a tutte le persone che soffrono di un disturbo mentale, tanto quanto aiutare un non vedente ad attraversare la strada. È un varco nel muro dello stigma.
E se capiterà di offrire un giudizio sospeso a chi potrebbe non meritarlo pensiamo ai tanti che silenziosamente ne avranno ricevuto un beneficio.
Se incontrate qualcuno triste, siate gentili
Tratto dalla rubrica di Repubblica Invece Concita. Il luogo delle vostre storie