Sfatiamo un mito: la depressione non è solo un male della modernità.
Tutti sentiamo dire, e a nostra volta spesso diciamo, che la depressione è “il male del secolo” e siamo convinti che la sua sempre maggiore diffusione sia da attribuire allo stress e ai ritmi intensi che caratterizzano l’epoca in cui viviamo. Se da una parte non c’è dubbio che lo stile di vita può facilitare la comparsa di questo disturbo e aumentare il rischio di ricadute dall’altra è altrettanto vero che la depressione nasce con l’uomo perché tutte le culture antiche riportano cambiamenti dello stato d’animo e del comportamento delle persone che oggi verrebbero diagnosticati come un disturbo depressivo.
I primi riferimenti noti si trovano in Omero che nell’Iliade descrive con grande accuratezza la malinconia di Bellerofonte e la profonda disperazione, culminata nel suicidio, di Aiace Talamonio.
Nell’Antico Testamento si narra che Saul attraversò un lungo periodo di grave “demoralizzazione”, refrattaria a ogni terapia compresa la “stimolazione” da parte di una donna giovane e attraente, che prima si risolse spontaneamente e poi ricomparve in forma ancora più grave. All’epoca prevaleva una visione etico-religiosa per cui questi malesseri erano attribuiti all’intervento di forze soprannaturali o divine ed erano spesso considerati una forma di punizione.
Solo nel IV secolo a.C , con Ippocrate, i cosi detti “mali dell’anima” furono considerati una vera e propria malattia e come tali studiati. Il grande medico greco per primo individuò nel cervello la sede delle emozioni e attribuì la depressione all’azione su questo organo di una sostanza prodotta dall’organismo, la bile nera (da cui il termine melanconia: mélas “nero” e cholé “bile”). Seguendo il metodo dell’osservazione obiettiva dei sintomi suggerito da Ippocrate, nei secoli successivi furono identificate le più importanti caratteristiche cliniche della depressione: Aristotele (III secolo a.C.) mise in evidenza uno stretto rapporto tra “malinconia” e creatività, sottolineando come artisti, poeti, filosofi e leader politici soffrissero di questo male più frequentemente della gente comune; Areteo di Cappadocia (I secolo d.C.) segnalò la tendenza alle ricadute e ipotizzò l’esistenza di uno stretto legame tra depressione ed eccitamento euforico considerandole le due facce di una stessa condizione (individuando per primo quello che oggi chiamiamo disturbi bipolari.
Nel Medioevo, sotto l’influenza della scuola araba di Avicenna (980-1037 d.C.), l’origine dei disturbi psichiatrici fu nuovamente attribuita a cause magiche e religiose: non più malattia ma colpa e peccato, da imputare a possessione demoniaca o a colpevole pigrizia.
È solo con il Rinascimento che si torna a pensare alla depressione come a una patologia causata da disfunzioni biologiche e come fu studiata e ne furono classificate le diverse forme.
Alla fine dell’Ottocento lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin pose le basi dell’attuale inquadramento dei disturbi dell’umore riunendo nella diagnosi di “malattia maniaco-depressiva” numerosi disturbi in precedenza considerati autonomi (depressione, mania, stati misti ecc…), e separandole dalla dementia praecox (schizofrenia) nel linguaggio scientifico attuale).
All’epoca non c’erano però ancora strumenti per studiare le alterazioni biologiche correlate ai disturbi depressivi né farmaci efficaci per curarli che indirettamente sostenessero l’idea di Kraepelin di cercare in una disfunzione del cervello l’origine di queste patologie.
Non c’è da meravigliarsi quindi se in quegli stessi anni Sigmund Freud e Karl Abraham proposero con grande successo una chiave di lettura psicologica-psicoanalitica della depressione la cui causa sarebbe da ricercarsi in “traumi dell’infanzia”, “perdita dell’oggetto d’amore” o “introiezione di sentimenti negativi irrisolti”. In questo modo ancora una volta fu messa da parte l’origine biologica della depressione a favore dell’ipotesi che si trattasse di un semplice disagio psichico.
E’ solo a partire dagli anni 80 del secolo scorso che si è verificato un capovolgimento di fronte grazie anche al riavvicinamento della psichiatria alla medicina empirica, cioè basata su riscontri oggettivi e non su semplici interpretazioni.
Abbiamo così imparato a conoscere meglio come funziona il cervello, quale è il ruolo svolto dai neurotrasmettitori (cioè quelle sostanze chimiche che permettono la comunicazione tra un neurone e l’altro) e dai neuro-ormoni e persino, grazie alla risonanza magnetica funzionale che permette di registrare in diretta l’attività del cervello, quali sono le aree che si attivano quando una persona vive una certa emozione.
Queste conoscenze ci stanno aiutando a identificare piano piano i correlati neurobiologici e neurofisiologici di diversi disturbi psichiatrici, compresa la depressione. Alla base dei disturbi dell’umore, cioè depressione e disturbi bipolari, ci sarebbe una comune predisposizione genetica che può dare luogo a tante diverse forme, alcune molto leggere altre molto gravi, che sono in continuità l’una con l’altra, quello che tecnicamente si definisce “spettro dei disturbi dell’umore”.
Questo inquadramento dei disturbi dell’umore, basato su riscontri clinici ormai consolidati, permette ai medici di mettere a punto strategie di cura personalizzate, e quindi più efficaci, e migliora la loro capacità di prevedere quale evoluzione potrà avere il disturbo nel tempo.